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Enciclica "Fratelli Tutti"

VT IT ART 41673 enciclica laudato si

Lettera Apostolica

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  • «Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepoli» Lc 14,33

    08092019La parola di Dio proclamata nell’odierna liturgia propone una ricca catechesi sulla natura e sul significato della sequela, soffermandosi su aspetti tanto diversi quanto complementari. Il vangelo descrive la sequela anzitutto come una rinuncia nei confronti di se stessi e di tutti quei legami che impediscono non solo lo slancio missionario, ma anche l’adesione piena alla persona di Gesù e alla volontà del Padre.

    Si tratta certamente di un insegnamento forte e radicale, già preannunciato nelle pagine dell’Antico Testamento, che mostra come la vera sapienza consista prima di tutto nel ricercare costantemente il volere divino, anche a costo di andare controcorrente.

    La seconda lettura ricorda però che l’abnegazione richiesta ai discepoli non comporta necessariamente la perdita di ciò che si ha di più caro: ciò che si perde per amore del Signore Gesù è ridato da Dio sotto una forma nuova e inaspettata.

    Da ciò consegue che, se da un lato la fedeltà agli insegnamenti di Gesù richiede una buona dose di fatica e di sacrificio, dall’altro non si deve dimenticare che in lui nulla è perduto ma tutto è ritrovato, per l’eternità.

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  • «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7,8)
    02092018La scelta di credere comporta una inevitabile tensione tra una fedeltà superficiale ed esteriore a tradizioni fissate dagli uomini e adesione profonda e responsabile alla persona di Gesù e alla sua parola. Questo dilemma pone ogni credente, nel proprio tempo e nel proprio ambiente di vita, in un perenne conflitto tra il “conservare” e il “cambiare” stili e modalità di vive- re la fede. Per questo la fedeltà al vangelo di Dio richiede una conversione continua e capacità di andare oltre la tentazione della sicurezza trovata nel formalismo religioso.
    Di fronte alle “tradizioni”, nelle quali si può concretizzare, nei diversi tempi e ambienti, la fedeltà al Signore, è sempre il vangelo che aiuta a discernere il vero loro valore. Gesù ci indica oggi un criterio determinante: le tradizioni non devono diventare vuoti formalismi, o addirittura prendere il posto di Dio, ma piuttosto essere un aiuto a conoscere e a fare la sua volontà.
    Così insegna anche la prima lettura: accettare la presenza di Dio nella propria vita significa anche assumere uno stile di vita differente da quello di coloro che seguono lo stile di questo mondo.
    Fede autentica è vivere il presente nella fedeltà alla sua parola.
    Nella seconda lettura, inoltre, il messaggio è chiaro: la religione autentica sta nella docilità ad accogliere la Parola e nella attuazione concreta di essa. In definitiva, si tratta di rispondere alla parola di Dio con l’amore fatto storia.
     

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  •  san ferdinando re
    Preghiera di san Ferdinando Re al termine della sua vita *
     
    Mio Signore, mio Dio, mio Redentore,
    l’onore, la vita, il regno e il potere,
    che per tua bontà mi donasti,
    insieme con infinite grazie, a te le rendo.
    Nudo nacqui dal ventre di mia madre,
    che è la terra, e nudo mi offro al cortese suo seno.
    L’anima mia restituisco,
    e raccomando a quelle mani,
    che in una croce inchiodate,
    e di acute punte trafitte, l’hanno redenta:
    a quelle mani, che mi han difeso nelle battaglie,
    custodito nei pericoli, liberato dagli affanni,
    e guidato per tutti i sentieri della mia vita.
    Mani sacre, mani divine,
    ove è il nido dei miei successi,
    ove è il porto dei miei naufragi,
    ove è la cala delle mie tempeste,
    il sereno dei miei turbini.
    In quelle mani, sì, raccomando l’anima mia,
    ove con dolce sonno s’addormentano le anime,
    ove il mio cuore trova eterno riposo,
    ove quasi in empirei divini
    s’imparadisa il mio spirito.
    In quelle mani, sì, raccomando l’anima mia,
    perché sono dispensatrici della pietà,
    canali della misericordia,
    miniere delle vere consolazioni, fonti delle grazie,
    officine dei miracoli, fabbricanti dei cieli,
    campidogli della provvidenza,
    sostentatrici dell’universo.
    Esse sono piene di preziosi giacinti, e fatte al tornio,
    per denotare la facilità di dispensar le grazie,
    sono tutte di oro per arricchirmi di doni celesti,
    ingioiellate di stelle per additarmi il cielo.
    Esse sono libro, ove si scrivono gli eletti,
    ove la mia sorte è riposta, ove la vita, e la morte,
    che impoveriscono e arricchiscono,
    che deprimono e innalzano,
    che percuotono e risanano,
    che affliggono e consolano,
    sono chiavi dell’abisso, e del cielo,
    le quali chiudono, e nessuno ardisce di aprire,
    che aprono, e nessun’altro può chiudere,
    che conducono, e riducono,
    che mi arricchiscono, che mi rinforzano, che mi consolano.
    Or in coteste, in coteste mani,
    sì, raccomando l’anima mia,
    acciocché sia collocata tra i servi tuoi.
     
     *Preghiera riportata da C.M. CARAFA, Virtù di san Ferdinando re di Castiglia, in ID., Opere politiche cristiane, Mazzarino, 1692, p. 129.

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  • «chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6,56)

    19082018Proseguendo la riflessione sul capitolo sesto del vangelo di Giovanni, la liturgia invita oggi a riflettere sul significato profondo della eucaristia cristiana, che si presenta attraverso il simbolo reale di un convito, ossia di un banchetto, nel quale i credenti in Gesù si siedono insieme per essere nutriti della sua Parola e del suo Corpo. Nel banchetto eucaristico trovano espressione, allo stesso tempo, il dono di Dio e la fede del credente, miracolo, accoglienza e condivisione. Stare insieme e condividere questo unico e particolare cibo crea unità, solidarietà, capacità di perdono, vita continuamente e qualitativamente nuova. Il vangelo odierno propone un termine interessante per dire la promessa contenuta nell’eucaristia cristiana: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui». Dimorare in Gesù significa trovare casa presso di lui, pane disceso dal cielo, entrare nel suo mistero per ricevere e donare vita.
    In una prospettiva simile la prima lettura anticipa questa promessa che troverà compimento in Gesù: presenta la figura simbolica della Sapienza che edifica la sua casa su fondamenta stabili e che invita a mangiare il suo pane per acquistare intelligenza e abbandonare le vie della stoltezza.
    Le fa eco la seconda lettura che invita i cristiani a decifrare nella propria vita la volontà di Dio, attraverso comportamenti corretti e attenzione allo Spirito, riconoscendo Dio come punto di riferimento e a vivere nella luce di Cristo per essere così essi stessi luce per gli altri.

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  • Loc FESTA AGOSTO 2018

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  • «Io sono il pane disceso dal cielo» (Gv 6,51)

    12082018Continuando la riflessione su Gesù “pane di vita” la liturgia invita oggi a riflettere sul significato della “vita nuova” che egli porta: rivelandoci il volto di Dio come volto di Padre, mostra a noi anche la nostra dignità di figli e ci apre alla possibilità di realizzare in pienezza la nostra vita. Egli indica come “eterna” la qualità di questa vita piena: non si tratta soltanto di una vita senza fine, ma piuttosto di partecipare già ora alla vita stessa di Dio, che supera ogni forma di morte: la nostra dignità di figli ci libera da ogni dipendenza e schiavitù terrena, pone il nostro valore in una dimensione più essenziale e più elevata, che nessuno e nulla ci può sottrarre.
    Nel vangelo Gesù continua a rivelarsi come inviato di Dio, pane vivo per la fame di ogni uomo, pane che vuole essere mangiato «perché chi ne mangia non muoia». Credere in lui è poter vivere “di vita eterna”, lasciarsi attirare da lui significa anche appartenere al Padre, e dare realizzazione piena al proprio vivere.
    La prima lettura prefigura, con le sue realtà-simbolo, il discorso sul pane per la vita dell’uomo: il pane e l’acqua che Elia riceve nel deserto diventano una fonte di forza che permette al profeta di camminare fino al monte di Dio. Il messaggio rivolto ad ogni credente è questo: l’energia, il soccorso, l’aiuto che possiamo ricevere da parte di Dio entrano in gioco soprattutto quando l’uomo riconosce la sua debolezza.
    La seconda lettura esorta a camminare nella carità: questo è il modo per esprimere la novità di una vita rinnovata dalla presenza di Dio. Il cammino nella carità è anche oggi per i cristiani il modo migliore per concretizzare quanto è annunciato dal Vangelo.

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  • «Il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» Gv 6,33

    05082018Dio può stupirci con la sua azione creatrice e rinnovatrice, può destare la nostra meraviglia, ma ciò richiede la nostra disponibilità a cogliere la sua presenza nella nostra storia: questo è il vero senso del “miracolo” nei vangeli e nella vita cristiana. La nostra disponibilità a cogliere la presenza di Dio nella storia degli uomini si chiama fede.
    Essa può essere generata dai suoi interventi, nei quali noi sappiamo leggere il suo agire, ma allo stesso tempo può anche essere la premessa di tale lettura dei segni. Non c’è contraddizione tra i due volti complementari della fede, intesa come docilità e fiducia in Dio e nel suo Figlio Gesù.
    Il vangelo di oggi ci mette di fronte proprio a questo messaggio: il rinnovamento del nostro sguardo di fede passa attraverso la comprensione e l’accettazione di Gesù come «pane dal cielo... che dà la vita al mondo».
    Solo questo sguardo profondo e non di superficie può introdurci al suo mistero: lui è il cibo che può nutrire la nostra anima e saziare la nostra fame di verità.
    Nella prima lettura il dono della “manna’” letto in chiave religiosa, viene colto come un intervento di Dio che permette al popolo di affrontare la fatica del deserto. A questa tradizione del “pane disceso dal cielo” si appella anche Gesù per presentare se stesso. La guida al comprendere chi sia per noi Gesù ci viene oggi dalla seconda lettura, con l’invito a «rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio», ossia con la proposta di scegliere Cristo come la vera novità, ossia come la possibilità di un continuo rinnovamento di noi stessi e del mondo.

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  • «Tu sei pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa» Mt 16,18

    27082017Gesù non corrisponde necessariamente alle aspettative di tutti e, di fatto, nella storia a lui successiva le opinioni su di lui si sono moltiplicate.
    Alcuni guardano a lui con ammirazione per il messaggio predicato o per le opere compiute, altri invece nutrono sospetti nei suoi riguardi; alcuni lo seguono per interesse, altri lo abbandonano delusi; alcuni sono entusiasti, altri sconcertati. La storia degli effetti si ripete anche oggi: Gesù continua ad essere il punto di discrimine tra fede e incredulità.

    Attuale è anche per noi la domanda che interpella in modo personale: «E voi, chi dite che io sia?».
    La professione di fede, da parte di Pietro, che il vangelo di oggi riporta può guidare la nostra risposta: Pietro fa un atto di fiducia e di affidamento: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna».
    Questa professione di fede è infatti il presupposto della stessa sequela cristiana. Una tale risposta di fede richiede però la rinuncia all’orgoglio e all’autosufficienza. È ciò che nella prima lettura viene descritto nell’anticipo profetico della simbologia delle chiavi, e quindi del “potere” salvante di Cristo nei riguardi dell’umanità, potere che viene affidato a Pietro come seguito della sua risposta. L’inno della seconda lettura è una lode alla sapienza di Dio, alla insondabilità del suo piano. Quanto sono inaccessibili le tue vie! Il credente può porsi davanti al mistero di Cristo solo in preghiera.

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  • Discorso alla città
    (al rientro della processione)
    Festa patronale - 27 agosto 2017

     

    Attraversando le vie della nostra città il nostro Santo Patrono ha posato lo sguardo sulla nostra comunità cittadina e ancora una volta è rimasto a bocca a aperta. Sì, a bocca aperta, così come lo vediamo raffigurato.
    Mi sono sempre interrogato sul perché lo scultore Salzano da Napoli avesse voluto raffigurare il Santo a bocca aperta. Forse ha voluto consegnarci in questo particolare iconografico un presagio di quel sentimento di sbigottimento che la nostra comunità avrebbe suscitato lungo i secoli.
    Oggi sono a chiedermi quali sono i motivi che lasciano a bocca aperta non solo il nostro Santo ma tutti noi, se solo per un attimo ci soffermiamo a riflettere sulla nostra comunità.
    San Ferdinando lo invochiamo quale invitto difensore del popolo gemente. Sì, siamo ancora un popolo gemente, un popolo che soffre, che stenta a librarsi in volo come un’aquila, ma ama ancora sguazzare nelle aie della mediocrità.
    Ritengo che siano tre le cause che impediscono al nostro popolo di volare alto e vivere secondo la descrizione che fu fatta delle nostre famiglie al momento della fondazione del nostro paese 170 anni fa, famiglie descritte come “felicemente ordinate in concordevole comunanza civile”, come si legge nella lapide commemorativa della fondazione del paese e che oggi possiamo vedere nella nostra Chiesa, appena si entra sulla parte di destra.
    Oggi quali motivi impediscono il raggiungimento di tale condizione? Ne indico tre: il dilagare della stupidità; la tracotanza dei furbi; il silenzio degli onesti. Questi tre tratti lasciano il Santo ancora a bocca aperta.

     

    1. Il dilagare della stupidità
    Sembra che la stupidità sia la cifra dei nostri tempi; essa impregna gli aspetti principali della vita del nostro paese.
    A fine ottocento, lo scrittore Gustave Flaubert concepì lo Sciocchezzaio (1881), un’opera che doveva raccogliere tutti i luoghi comuni, le piccolezze, le banalità della sua epoca. La versione contemporanea dello Sciocchezzaio sono i social network, ormai divenuti discariche di scorie celebrali.
    Il dilagare della stupidità con il diffondersi delle sciocchezze rischia di diventare una vera è propria emergenza umanitaria nella nostra città. Sì, l’emergenza riguarda la nostra umanità: è il nostro restare umani che è in emergenza di fronte all’imbarbarimento dei costumi, dei discorsi, dei pensieri, delle azioni che sviliscono e sbeffeggiano quelli che un tempo erano considerati i valori e i principi della nostra “concordevole comunanza civile”.

    Il pensiero va in modo particolare alle tante forme di chiusura crescenti; i luoghi comuni sciocchi e infondati sulle migrazioni, la resistenza a promuovere e testimoniare accoglienza e solidarietà da parte di crocchi di nichilisti, improvvisati attacchini di adesivi farneticanti.
    So bene che dagli stupidi è davvero difficile difendersi. Ritengo che il dilagare delle stupidità sia da attribuirsi a un fenomeno simile a quello che sta caratterizzando la stagione estiva di quest’anno: la siccità. Il nostro paese da tempo soffre di siccità culturale. Un rimedio sicuro contro la stupidità è la cultura.
    La cultura è un bene comune primario e vitale come l’acqua. I libri, i teatri, le biblioteche, i cinema... sono come tanti acquedotti. Lo sapeva bene il nostro Santo Patrono che durante il suo regno si fece promotore di molte università in Spagna.
    La cultura rende liberi e veri perché dà la possibilità di pensare con la propria testa e ti rende capace di assumere decisioni e posizioni, in modo che non sia 'qualcun altro' a farlo. La cultura fa in modo che il pensare non si fermi alle apparenze e non sia superficiale, ci aiuta a comprendere e conoscere.
    Nel nostro paese, però, di cultura non ne vogliamo sapere, perché costa ricerca, tempo e fatica.
    Si preferisce articolare le mascelle per mangiare anziché spremere le meningi per pensare.
    La cultura rende liberi, veri e onesti intellettualmente. Senza cultura si muore schiavi di qualcuno o di qualcosa. Ho la sensazione che il nostro paese ha bisogno di sentirsi sempre schiavo di qualcuno o di qualcosa. Siamo geneticamente borbonici. Ne è prova che ad ogni cambio di guardia nella gestione della cosa pubblica si assiste a nugoli di galli canterini e galline chioccianti che, con variopinto e cangiante piumaggio, in preda ad euforia isterica, sono intenti ad attendere una manciata di mangime nel cortile del potere.
    Anche la religione la si vive come forma di schiavitù. Esiste nelle nostre terre una forma di fede cattolica, che è “refrattaria al Vangelo”, affermava don Luigi Sturzo. E’ quella pseudo religiosità nutrita di ideologie fanatiche e intolleranti, stigmatizzate anche dalla nostra Carta costituzionale.
    È quella religiosità popolare che ha più di magico e superstizioso e che riduce la fede a sacre rappresentazioni e a spettacolo liberatorio; è quella religiosità che preferisce un dio usato come dispensatore di miracoli, che insegue atti magico-sacrali; è la religiosità di un dio che fomenta la stupidità credulona e ciarlatana.
    Come credenti in Gesù Cristo dobbiamo alimentare spirito di solidarietà e di impegno.
    Dobbiamo essere per tutti proposta di vita, di socialità, di novità, esperienza di incontro, luogo di fedeltà e di profezia, segno di contraddizione.

     

    2. La tracotanza dei furbi
    L’Italia è arcinota per essere il Paese dei furbi, verrebbe da dire, record atavico che viene da lontano. Peraltro, i padri dei padri dei nostri padri onoravano l’astuto Ulisse come un “eroe dal multiforme ingegno”.
    Una vera condanna sociale della furbizia, insomma, non c’è mai stata, è rimasta un po’ nel limbo, una di quelle doti che – nel giudizio comune – un po’ è meglio avere. Questione di misura, più che altro, non tanto di principio, il vero problema semmai sono i “troppo furbi”.
    Un po’ di condiscendenza c’è, ammettiamolo.
    Ora, la parola “furbo” ha un’origine un po’ incerta. Per molto tempo è stata fatta risalire al francese “fourbir”, che significa “ripulire”. Ripulire cosa? Le tasche del prossimo, dicevano i linguisti. Più recentemente pare trovare favore la tesi che la parola venga in realtà dal latino “fur” attraverso un italiano antico “furvus” che significava “oscuro”. Ma “fur” in latino vuol dire “ladro”, ha un evidente legame con la parola “furto” (cosa che certamente riesce meglio nell’ oscurità), per cui, da qualunque lato lo si guardi, quello che emerge è che il furbo è sostanzialmente un ladro, uno che si appropria di ciò che non gli spetta, l’etimologia non mente mai. Altro che condiscendenza! È qual è l'essenza della prepotenza e della furbizia? È l'ostentazione della propria superiorità rispetto a tutte le regole sociali, morali, legali e al giudizio della comunità. Il prepotente agisce sempre in modo tale da dimostrare agli altri che può fare ciò che vuole.
    Nel nostro paese l’esercito di chi, pur di perseguire il proprio utile, danneggia il prossimo arruola sempre più coscritti. E così il regno del malaffare cresce a dismisura. Quel che è peggio è che si registra quanto Il poeta e giornalista Giovanni Raboni (1932-2004) ebbe a scrivere: "Nel trionfo del malaffare…chiunque può vedere pregiudicati e delinquenti d'ogni risma e colore mettere sull'attenti compunti picchetti d'onore".
    Come reagire? Anziché fare da picchetti d’onore di questi loschi figuri davanti ai bar o a bearsi di essere commensali ai loro lauti banchetti, vi invito ad esprimere pubblica riprovazione verso gli artefici del malaffare. La riprovazione sociale è già sanzione sociale, un discredito. Nella nostra piccola comunità cittadina la riprovazione sociale deve arrivare fino alla emarginazione di chi non si adegua ai valori morali. La riprovazione sociale può essere più efficace di un sistema formale di norme e punizioni codificate. Dagli stupidi ci si difende con la cultura, dai furbi con la riprovazione sociale.
    Vi supplico: isoliamo i prepotenti, i signorotti che spadroneggiano indisturbati. Chi oltraggia la convivenza sociale col malaffare e la furbizia deve sperimentare la riprovazione sociale e l’isolamento.
    Rivolgo un accorato appello a quanti rivestono responsabilità pubbliche e ruoli di particolare rilevanza sociale: nessuno offra allo sguardo scandalizzato del cittadino onesto lo spettacolo indecoroso di accompagnarsi ai signorotti che tengono sotto scacco il nostro paese, come purtroppo sovente accade di notare. Nessuno si ritrovi a rivestire il ruolo di compagno di merende di chi trama il malaffare. I cittadini hanno bisogno di recuperare fiducia nelle istituzioni e in chiunque riveste ruoli di responsabilità.

     

    3. Il silenzio degli onesti
    “Non ho paura degli urli dei violenti, ma del silenzio degli onesti”. Questo sosteneva Martin Luther King, con gran ragione.
    Nel nostro paese l’onesto cittadino da sempre ha deciso di racchiudersi nell’angosciante silenzio dell’omertà.
    Il muro di gomma costruito dal silenzio omertoso degli uomini onesti, l’omertà degli onesti alimenta la politica degli interessi di pochi e non del ben comune.
    La nicchia omertosa e vigliacca del silenzio, nella quale è umano sentirsi come un animale in gabbia, libero di vivere ma solo in quella gabbia. Il che non significa vivere, ma sopravvivere.
    Perché tacciono gli onesti, ieri come oggi? Per ignavia, si dice, per pura concentrazione sull’interesse personale. Vero. Tuttavia è altrettanto evidente come siano attive altre dinamiche che blindano il silenzio in modo più preoccupante e trasversale. La paura e il bisogno di autoprotezione, innanzitutto. Che cos’è, se non bisogno di protezione il mostrarsi a prendere il caffè al bare con i mammasantissima del paese? Di fronte ad una malavita sempre più organizzata, e sempre più protetta, nella sostanza, dallo stesso sistema che dovrebbe giudicarla e punirla, chi osa parlare?
    Cresce quindi, spontaneamente, come un virus silenzioso e maligno, la censura personale anche verso i comportamenti devianti altrui: meglio stare zitti, per non mettersi nei guai per troppo zelo o senso civico. Tuttavia, non è solo la paura a chiudere la bocca agli onesti. E’ anche, e forse soprattutto, la sfiducia nel poter agire efficacemente per cambiare le cose. Purtroppo, il loro silenzio può portare il paese all’anarchia morale, cui è già avviato. A chi giova, tutto questo? E, soprattutto, come rimediare?
    Invito ogni cittadino, in sinergia con le istituzioni pubbliche, a rilanciare il nostro impegno a contribuire alla rinascita morale, sociale e spirituale della nostra comunità cittadina. Il tumore del malaffare va denunciato ed estirpato con determinazione, ovunque esso si annidi. Vi scongiuro: riaccendiamoci di passione per il senso civico, a costo di pagare di persona!

    Carissimi, San Ferdinando finora è rimasto a bocca aperta, sbigottito per questi tre mali che fanno emettere gemiti di sofferenza al nostro popolo. D’ora in poi facciamo in modo che egli non possa chiudere bocca nei confronti dei sanferdinandesi perché andrà fiero del fatto che avremo vinto la stupidità con la cultura, la furbizia con la passione per la moralità, il silenzio con il coraggio della denuncia e della passione per una convivenza civica di qualità e torneremo a vivere in “concordevole comunanza civile”.

     

    Mi raccomando, sanferdinandesi:
    testa alta, schiena dritta,
    mente larga e cuore grande.
    Camminiamo insieme per una rinascita morale e spirituale.
    Buona festa a tutti!

     

    Mons. Domenico Marrone
    parroco

  • san ferdinando re trono

    festa patronale 2017 1

  • «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini» Mt 15,26

    20082017Invocare è l’atteggiamento del credente che chiama Dio ad essere presente nella situazione umana di difficoltà e rischio.
    Gesù, che si sente «inviato alle pecore perdute della casa di Israele», di fronte alla vera fede amplia gli orizzonti della promessa di salvezza a tutti coloro che lo sanno accogliere e che vedono in lui il volto umano di Dio. L’immagine della donna cananea, di cui parla il vangelo, esprime bene l’apertura universalistica della fede cristiana, che rende capaci di superare barriere d’ogni genere per ricondurre sotto lo sguardo dell’unico Padre tutta l’umanità. L’episodio narrato dal vangelo sembra essere una catechesi sulla fede proposta ai discepoli: la fede di una donna straniera, lodata da Gesù, mostra come il piano salvifico di Dio abbracci tutta l’umanità. È chiara la conclusione: «Donna, davvero grande è la tua ede! Ti sia fatto come desideri». Anticipa questa visione aperta la prima lettura nella quale Isaia afferma il principio che «il Signore protegge lo straniero»: anche qui, condizione per partecipare al popolo di Dio non è l’appartenenza etnica, ma una vita fedele alle esigenze dell’alleanza. Nella seconda lettura Paolo cerca di chiarire il motivo per cui il popolo di cui egli è figlio nutre difficoltà ad accettare Cristo, ma esprime anche la sua certezza che la fedeltà di Dio non verrà meno e nella sua misericordia saprà condurre la storia ad una riconciliazione fra tutti.

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  • «sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare» Mt 14,25

    13082017La presenza di Dio accanto a noi, come ci attesta la rivelazione biblica e cristiana, non è in contrasto con la sua trascendenza: questa indica infatti che la sua presenza è “per noi”, ma è “diversa” da come noi tendiamo a immaginarla. Per questo di Dio non possiamo farci delle immagini, o quantomeno dobbiamo avere piena coscienza che tutte le nostre “immagini” sono inadeguate a esprimerne l’essenza e l’agire. In Gesù Cristo, però, abbiamo il “segno” più alto della presenza di Dio nella realtà umana: nella sua manifestazione del Padre siamo resi figli, e perciò siamo anche invitati a porre tutta la nostra vita davanti a lui, a vivere alla suaIl racconto della prima lettura anticipa profeticamente quanto verrà annunciato dal vangelo. L’incontro di Elia con Dio sul monte Oreb sottolinea un aspetto importante del mistero di Dio e della esperienza religiosa: Dio non si identifica con nessun fenomeno della natura, non si lascia imprigionare da nessun elemento creato. L’esperienza di Elia è dunque significativa per la fede.
    In questa luce possiamo comprendere anche l’episodio narrato dal vangelo, di Gesù che “cammina sulle acque”: qui il tutto sfocia in una rivelazione e in una confessione di fede, nella solenne dichiarazione di Pietro che Gesù è «Figlio di Dio». È la rivelazione del Dio che si fa vicino, come evoca l’espressione «Io sono». Si tratta di una presenza liberante: «Coraggio, io sono, non abbiate paura!». Anche nella seconda lettura il vangelo ci è presentato quale compimento delle attese: per lo stesso Israele, l’ebreo Paolo si preoccupa di confermare, le promesse divine non sono rese vane, rimangono vere ed attuali.

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  • «Gesù prese con se Pietro, Giovanni e Giacomo e lo condusse in disparte, su un altro monte» Mt 17,1

    06082017La solennità della “trasfigurazione” evoca la narrazione evangelica secondo la quale Gesù si manifesta ai suoi discepoli in tutto lo splendore della vita divina che è in lui, anticipando così la rivelazione della sua Pasqua di risurrezione. Questa rivelazione non riguarda però soltanto lui, ma anche noi che crediamo in lui come nostro redentore. A partire da questa fede la nostra vita assume un significato nuovo, in quanto può diventare un continuo processo di trasformazione, fino a trasfigurare tutta la nostra esistenza nell’immagine di Cristo risorto.
    Il racconto della trasfigurazione di Gesù, nel vangelo di oggi, segue la presentazione delle esigenze della sua sequela: chi vuol diventare suo discepolo deve im- parare a rischiare la propria vita per il Maestro, la sua forza infatti sta nell’ascoltarlo e nel conformare a lui la propria esistenza, riconoscendolo come volto di Dio, vera abitazione di Dio nella carne umana.
    Questo motivo messianico è già presente nella prima lettura, là dove Daniele parla di una manifestazione del «figlio d’uomo»: nei vangeli infatti Gesù stesso si attribuisce questo titolo e indica con esso la propria missione di salvezza.
    Nella seconda lettura possiamo ascoltare la testimonianza di Pietro, uno dei discepoli presenti alla trasfigurazione del Maestro: egli però non si limita a informare, ma ci annuncia il significato che ebbe per lui, e che dunque deve avere anche per noi, questa esperienza di cui facciamo memoria. E il significato sta proprio in questo: conoscere Cristo vuol dire fondare la propria vita non su favole, ma sulla parola di Dio che è fedele alla sua promessa e può dare luce alla nostra esistenza.

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  • O Dio, pastore eterno,

    che governi il tuo popolo

    con sollecitudine di padre,

    dona alla nostra chiesa

    di Trani-Barletta-Bisceglie

    un vescovo a te accetto

    per santità di vita,

    interamente consacrato

    al servizio del tuo popolo.

    Per Cristo nostro Signore.

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  • VITA SPIRITUALE DI SAN FERDINANDO

    28082016Conquistare la fede cattolica
    Fernando, essendo re, sentiva nel suo animo la necessità di servire Gesù Cristo conquistando la fede cattolica, avendo come unico obiettivo la diffusione della fede in Cristo per la maggior gloria di Dio.

     

    Mortificazione e penitenza
    San Ferdinando praticò la mortificazione e la penitenza, come tutti i santi. Dalle Cronache sappiamo che dedicò tutta la sua vita al servizio del suo popolo per amore di Dio, con tale diligenza, costanza e sacrificio, che stupisce. San Ferdinando cattura così l’anima di tutti gli storici, dai suoi immediati contemporanei fino a quelli attuali.
    In alcune occasioni particolarmente importanti, si poneva sotto l’abito o sotto l’armatura, una sorta di camicia, che aveva cucite al suo interno fino a trecento punte di ferro, che gli copriva il petto, la schiena, le spalle e le braccia; allo stesso modo, salvo caso di malattia, si disciplinava tre volte alla settimana fino a sanguinare. Ferdinando si imponeva questi ed altri sacrifici per assoggettare il suo corpo e supplicare Dio per le cose che più gli importavano, dimostrando che davvero gli importavano, in quanto per esse si sacrificava.
    Così, quando Siviglia sembrava inespugnabile, Ferdinando fece appello a tutti i mezzi umani, ma ricorse soprattutto a Dio, il Signore degli Eserciti. Indossò un ruvido cilicio e si sottopose alla disciplina tre volte alla settimana. Ricorse, allo stesso modo all’aiuto dei Santi. Stando a León, era diventato molto devoto a due di essi, che secoli addietro erano stati Arcivescovi di Siviglia, San Leandro e San Isidoro. È credenza popolare che quest’ultimo fu colui che lo animò interiormente a perseverare nell’assedio della città.

     

    Prudenza nel governo
    Come sovrano eccelle in virtù eroiche. Si distinse in particolare in una delle virtù proprie di coloro che tengono le redini di un popolo, ovvero, la prudenza nel governo. Fin da quando aveva 18 anni cominciò a governare con tanta abilità come se possedesse una grande esperienza. A coloro che fecero parte delle sue corti apparve sempre ammirabile il giudizio con il quale deliberava e la maturità con la quale risolveva le questioni.
    Come ha scritto Ribadeneria, “sembrava antica la prudenza in un re giovane”.
    Tuttavia, sapendo che poteva sbagliare, il che è un’ulteriore manifestazione di detta virtù, chiedeva sempre consiglio alla sua corte e nelle campagne militari a dodici uomini aggi, provenienti dall’Università di Salamanca, con i quali si consultava per tutti i suoi propositi, non per spogliarsi della sua autorità, seguendo ciò che gli diceva la maggioranza, ma per chiarire la sua intelligenza con i lumi che i saggi gli proponevano.
    Da questi dodici uomini saggi ebbe origine ciò che in seguito venne chiamato il Consiglio Reale di Castiglia.

     

    Giustizia
    Insieme alla prudenza rispendeva in San Ferdinando la virtù della giustizia. Perdonava con facilità i torti che subiva, come si vide agli inizi del suo regno, nel quale concesse un perdono generale di tutte le ingiurie che i suoi vassalli avevano commesso, e pur potendo vendicarsi di alcuni di loro, come per esempio dei conti di Lara e di altri signori che si erano ribellati, non lo fece, ma li colmò di favori. Ma quando l’ingiustizia non era compiuta contro la sua persona, ma contro Dio, contro la Vergine, le vedove o i poveri, il suo furore santo si incendiava.

     

    Misericordia
    Senza dubbio questa giustizia non si staccava mai dalla misericordia. È stato detto che Ferdinando aveva una giustizia misericordiosa ed una misericordia giusta, perché castigava con severità i ribelli ma perdonava con pietà i pentiti. Mai la sua spada si macchiò di sangue innocente, e quando succedeva con quello dei colpevoli, il suo cuore sanguinava. Nel castigare come nel giudice, non dimenticava di essere padre.

     

    Carità
    Nell’amministrazione della giustizia si preoccupava in particolare che i poveri non soffrissero per colpa dei ricchi. Sentiva che la grandezza dei re consisteva nell’essere rifugio degli innocenti e di coloro che erano nel bisogno. Per questo lasciava sempre aperta una porta del suo palazzo e facilmente concedeva udienza a coloro che lo sollecitavano, molte volte giudicando in prima persona le cause dei poveri.
    La sua carità non conosceva limiti. Fondò ospedali, case di rifugio e di misericordia; e in guerra, lo stesso re santo svolgeva il compito di infermiere con i soldati feriti. Li visitava, li consolava, faceva loro regali, e non poche volte, con le sue mani medicava i loro corpi feriti dalla battaglia.
    Come dice Ribadeneira, “Ferdinando era occhi per il cieco, piedi per lo storpio, riparo per gli orfani, rimedio delle vedove, protezione per i indigenti, rimedio a tutte le necessità, padre dei suoi sudditi, e re dei loro cuori, che coltivava e rassicurava con la soave forza del suo amore”. Non cessò mai di fare l’elemosina agli indigenti. Per questo a volte lo si è rappresentato con lo scettro nella mano sinistra e con la destra mentre distribuisce monete ai mendicanti che lo circondano. Egli fu colui il quale introdusse il pietoso costume di lavare i piedi a dodici poveri il Giovedì Santo.
    Un altro dettaglio della sua pratica caritativa viene raccontato da suo figlio Alfonso, il quale ricorda che quando andava a cavallo accompagnato da gente a piedi, Ferdinando III si allontanava dalla strada, affinché la polvere non molestasse coloro che procedevano a piedi né accecare i muli.

     

    Collaborazione con la Chiesa
    San Ferdinando fu un re santo nello stile dei re medievali, che concepivano la loro regalità come un vicariato di Dio in favore del suo popolo, nella “unione più stretta con la Chiesa. Non è che il re Ferdinando si lasciava influenzare dai prelati nelle cose che competevano la sua giurisdizione regale, nella quale si mostrava signorilmente indipendente. Ma dato che i suoi erano allo stesso tempo sudditi del re e della Chiesa, comprendeva la necessità di unire lo scettro regale al bastone episcopale, la spada del re alla croce di Cristo, sostegno spirituale della sua amministrazione nell’ordine temporale. Rispondendo ad alcuni dei suoi, durante l’assedio di Siviglia, che si avvalevano di una parte delle rendite ecclesiastiche,
    per poi trovarsi privi di denaro quando la necessità era tanto grande e la causa tanto giusta, disse: “Agli ecclesiastici chiedo solo le preghiere. Bisogna chiederle e sollecitarle sempre, perché ai loro santi sacrifici e alle loro preghiere dobbiamo la maggior parte delle nostre conquiste”.
    Trovò appoggio, soprattutto, negli Ordini Mendicanti, nati di recente, tanto che, come dice Ribadeneira, “quando essi con le loro sacre compagnie di religiosi distruggono con la parola gli eretici, Ferdinando con i suoi soldati bandisce con le armi il Corano dalla Spagna e allarga i confini della fede cristiana”. Questo spiega la forte protezione che concedette a suddetti Ordini. Per questo fece edificare numerosi conventi e monasteri di religiosi, convinto che i templi fossero i baluardi del suo regno, gli ordini religiosi le sue mura, e i cori dei religiosi i suoi soldati, perché confidava più nelle loro preghiere che nelle sue armi, perché essi cantando lodi a Dio meritano le vittorie per il suo esercito. Fu la stessa idea che lo portò ad intraprendere la costruzione delle più splendide cattedrali di Spagna, come quelle di Burgos e Toledo, e forse anche di León, che fu avviata durante il suo regno. Non si costruiva Chiesa nella quale non volesse aver parte. Provava profondo rispetto per i templi e si mostrava gelosissimo del loro carattere sacro, rimediando agli oltraggi causati dai mori.

     

    Uomo di preghiera
    Nell’intimo di Ferdinando palpitava un’intensa “vita spiritale”. Era, davvero, un uomo di preghiera. Quando doveva affrontare qualche grave necessità, passava notti intere alla presenza di Dio, pregando per il suo popolo ed implorando la benevolenza divina. Ricordiamo un aneddoto della sua vita che ci mostra questa costante orazione. Ad esempio, mentre si trovava a Toledo costretto a letto da una malattia, vegliava di notte pregando per i suoi. Quando gli chiedevano di riposarsi replicava: “Se non veglio, come potreste voi dormire tranquilli?”.

     

    Partecipazione frequente al sacrificio della Messa
    Impressiona anche in questo re e padre di famiglia, il fatto che partecipava alla Messa ogni giorno, anche durante le campagne di guerra. Le Cronache ci raccontano che, dopo essersi comunicato, aveva l’abitudine di chiudere gli occhi. Un giorno sua madre gli chiese perché lo facesse: “So che Gesù Cristo è dentro di me” le rispose, “e per parlargli chiudo gli occhi e gli dico che Egli è il mio Re e Signore, ed io sono il suo cavaliere, e che voglio affrontare grandi fatiche per Lui nella conquista spagnola contro i mori, e che la sua Madre gloriosa è la mia Signora”.
    E giustamente suo figlio Alonso diceva: “Non ho mai conosciuto re migliore ho di lui nell’incontro con Dio”.

     

    Devozione alla Santissima Vergine
    Allo stesso modo fu ammirabile la sua devozione alla Santissima Vergine. La amava più di quanto amasse i suoi stessi figli, accorrendo a Lei con maggiore fiducia di quanta ne riponesse nella sua stessa madre.
    Se ogni cavaliere deve avere la sua dama, Maria fu per Ferdinando la Dama dei suoi sogni. Era consigliera nelle sue imprese, compagna delle sue giornate, ragione delle sue conquiste. Era al principio e alla fine delle sue battaglie, giacché non solo le conduceva in nome di Dio, ma anche di Nostra Signora, e le sue vittorie erano come un trionfo di Maria.
    Soleva portare sempre con sé due immagini mariane. La prima era la Vergine dei Re, magnifico regalo di sui cugino, il primo San Luigi. [San Luigi IX, re di Francia n.d.T.]
    Per questa immagine, che proclamò patrona del suo esercito, Ferdinando mostrò particolare devozione. Con essa si tratteneva in preghiera nelle ore che gli restavano libere dai suoi obblighi di re. Durante l’assedio di Siviglia, le fece erigere una cappella stabile nel suo accampamento, e rinunciando ad entrare per primo in detta città, dopo la sua vittoria sul campo, le cedette l’onore di aprire il corteo trionfale. Prima di morire, ordinò che deponessero il suo corpo ai suoi piedi. L’altra immagine che venerava è quella che amava chiamare la Vergine delle Battaglie, una preziosa statua in avorio, che portava con sé nei combattimenti, attaccata alle maniglie della sella del suo cavallo, per contare sulla sua protezione nella lotta contro i nemici di suo Figlio. La Vergine dei Re era per l’accampamento, e la Vergine delle Battaglie per il combattimento. Quella dei Re si trova oggi sull’altare della Cappella Reale, nella cattedrale di Siviglia, ai suoi piedi si conservano i resti del Santo. Quella delle Battaglie si trova al museo della Cattedrale.
    Tra gli eremi costruiti da Ferdinando III e dedicati alla Vergine, quella alla quale dedicò più devozione fu quello di Nostra Signora di Valme, situato nella bellissima città di Dos Hermanas. Secondo la tradizione che, prima del decisivo attacco a Siviglia, il re di Castiglia e León manifestò la sua fede nella Vergine e verso una statua per la quale nutriva molta devozione, implorò: “Valedme (Valme, che significa “aiutami”), Signora, in questa impresa che compio in nome di Dio e a gloria vostra. Io vi offro in questo luogo il primo vessillo nemico che sventola su Siviglia”.
    In effetti, il re cristiano conquistò Siviglia e, mantenendo la sua promessa, sulla sommità del Cerro (o Cortijo) Cuarto [una collina n.d.T.], detto anche Buenavista, fece costruire una cappella, in stile “mudéjar” [stile dell’arte spagnola sviluppatosi subito dopo la fine della dominazione musulmana n.d.T.], nella quale collocò l’immagine della Vergine che, in ricordo della accorata invocazione del re, fu detta di Valme. Ai suoi piedi collocò lo stendardo del re moro di Siviglia, attualmente è conservato nella Parrocchia di Santa Maria Maddalena di Dos Hermanos.

     

    Morte umile
    La morte di Ferdinando è stata un’ulteriore dimostrazione di santità. Avendo conquistato Siviglia, progettava di dirigersi verso le coste del Nord Africa per battere il nemico in ritirata e sconfiggerli nel loro stesso regno.
    Ma una terribile malattia, l’idropisia, lo colse mentre soggiornava presso l’Alcazar di Siviglia. [palazzo reale a Siviglia, n.d.T.]
    Aveva solo cinquant’anni, ma il suo corpo era provato dalle tante preoccupazioni e dalle tante battaglie. Aveva regnato trentacinque anni in Castiglia e ventidue nel León, dei quali quasi trenta in battaglia. Quando sentì di stare davvero molto male, capendo che era giunta l’ora della sua morte, gli amministrarono il Santo Viatico, e quando udì il suo della campana, fece un profondo atto di umiltà: si alzò dal letto, si mise in ginocchio, e tenendo tra le mani un crocifisso, lo baciò ripetutamente, e se lo pose con una corda al collo; in seguito, ripercorrendo i passi della passione di Cristo, lodò la misericordia e la pietà del suo Signore, e si accusò di avervi mal corrisposto e di avere grandi colpe, poi proclamò a sua fece e ricevette il santo sacramento. Quindi fece togliere dalla sua camera tutte le insegne regali, volendo dimostrare con questo che non c’è altro re se non Gesù Cristo, o che nella morte gli uomini sono tutti uguali, i re e i sudditi, i grandi e i piccoli, i ricchi e i poveri, poiché tutti muoiono nudi proprio come sono nati.
    Dopo aver reso grazie al Signore perché lo aveva visitato nel sacramento, chiamò la regina Giovanna e i suoi figli, e si congedò con tenerezza da ciascuno di essi. In particolare si rivolse al principe ereditario, per esortarlo a compiere i suoi doveri, tanto quelli generali del regno come quelli particolari della sua persona, il timore di Dio, la protezione di sua madre e dei suoi figli, il rispetto per gli ecclesiastici, la stima per i nobili, la protezione dei bisognosi, l’amministrazione della giustizia, la misericordia con i poveri, il culto divino, la propagazione della fede, concludendo i suoi consigli con queste parole: “Ti lascio tutte le terre che possedevano i mori dal mare fino a qui. Tutto resta sotto il tuo dominio, la parte conquistata e la parte ereditata. Se le conserverai così come te le affido, sarai un re buono come me; se ne guadagnerai di più, sarai un re migliore di me; se le perderai, non sarai un re buono come me”.
    Pregò poi che gli ponessero una candela accesa nella mano, e levando gli occhi al cielo disse: “Signore, mi hai dato regno, onore e potere senza meriti. Tutte quello che mi hai dato te lo rendo, e ti chiedo, nel consegnarti la mia anima, che con essa le usi divina misericordia”: Quindi si rivolse ai presenti e li pregò umilmente che se ad avesse offeso qualcuno in qualcosa, lo perdonassero. Chiese poi ai sacerdoti di intonare le litanie dei santi e il Te Deum e al secondo verso di questo inno, chiuse tranquillamente gli occhi per sempre. Era il 30 maggio del 1252.
    La notizia della morte del re santo si diffuse in tutto il mondo, e tanto il Papa quanto i re e i principi cristiani ne rimasero costernati.
    Anche gli infedeli mostrarono il loro dolore. Alhamar, re di Granada, nell’apprendere la cosa, chiese di fare nel suo regno grandi dimostrazioni di cordoglio, ed inviò cento nobili mori, riccamente vestiti e con in mano una candela bianca per assistere alle sue esequie.
    Tale fu la vita esteriore e la morte santa del più grande dei re di Castiglia, che fu chiamato “Atleta di Cristo” da Papa Gregorio IX e Innocenzo IV gli diede il titolo di “Campione Invitto di Gesù Cristo”. “Della vita interiore” dicono Menéndez e Pelay, “chi potrebbe parlare degnamente se non gli angeli, che furono testimoni dei suoi colloqui spirituali e di quelle estasi che tante volte precedettero e annunciarono le sue vittorie?
    Per questo non sorprende che, per il suo primo sepolcro con filiale tenerezza l’infante Don Alfonso ordinò di incidere, sui suoi quattro lati, in ebraico, arabo, latino e castigliano, uno degli epitaffi più belli del intero patrimonio epigrafico universale: “Qui giace l’onoratissimo Re Ferdinando, Signore di Castiglia e di Tolendo, di León e di Galizia, di Siviglia, di Cordoba, di Murcia, di Jaèn, colui che conquistò tutta la Spagna, il più leale, il più vero, il più franco, il più forte, il più gentile, il più illustre, il più indulgente, il più umile, colui che temeva grandemente Dio, al quale grandemente prestò servizio, colui che annientò e distrusse tutti i suoi nemici, colui che innalzò ed onorò tutti i suoi amici e conquistò la città di Siviglia, capitale di tutta la Spagna”.

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  • “Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti cercheranno di entrare ma non ci riusciranno” (Lc 13,24)

    21082016Il richiamo alla “porta stretta”, presente nel vangelo odierno, non deve scoraggiare, ma aiutare a prendere consapevolezza del limite che contrassegna il nostro cammino verso la pienezza della vita: esso è metafora che si fa invito a cogliere tutte le occasioni e le opportunità per aderire all’offerta da parte di Dio.

    Dio si rivela come la forza che permette di affrontare la vita: la sua destra è garanzia di salvezza. Chi si affida a lui sa che Dio non abbandonerà l’opera delle sue mani. Il credente sa però anche che di fronte a Dio non può essere che umile: nessuna pretesa, nessuna arroganza. Di fronte a Dio non abbiamo motivi per insuperbirci. Egli rivela la sua gloria risollevando il servo che confida in lui e guidando il suo L’invito a far parte del regno di Dio è rivolto a tutti, ma il vangelo di Luca richiama i discepoli di Gesù alla loro responsabilità: il regno di Dio è simboleggiato da un banchetto, una opportunità di incontro e di comunione, ma questa opportunità va accolta e vissuta in tutte le sue dimensioni. È un dono, e richiede umiltà, l’umiltà delle condizioni necessarie al banchetto: la comunione di mensa, infatti, rivela il volto di chi ci sta vicino, e anche delle sue necessità.

    Quale esempio, già la prima lettura ci parla di una comunione universale, non esclusivista, ma aperta all’accoglienza: l’utopia che tutti i popoli possano radunarsi nel tempio di Dio. Un sogno che potrà parzialmente realizzarsi attraverso la disponibilità dei credenti.

    Questo chiede conversione del cuore: in tale prospettiva la seconda lettura interpreta le difficoltà e le prove come “correzione” da parte del Signore che «ama e percuote chiunque riconosce come figlio».

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  • "Pensate che io sia venuto a portare pace? No, io vi dico, ma divisione" (Lc 12,51)

    14082016Siamo abituati a pensare Gesù come annunciatore della non violenza e le parole del vangelo oggi proclamato nella liturgia potrebbero sembrare in contraddizione con la nostra immagine di lui. Gesù ha predicato certamente la pace, ma non una pace facile. Gesù non è un rappresentante dell’ideologia “pacifista”. Davanti alla propria missione Gesù vive l’anelito che crea tensione: un desiderio di compimento che interpella. E così gli animi possono dividersi e anche in seno alle relazioni umane più forti possono crearsi conflitti: Gesù può essere segno di contraddizione. La mitezza evangelica, infatti, non è da confondere con un temperamento remissivo.
    Non si identifica con la rassegnazione passiva, né con l’atteggiamento gregario e tanto meno con l’indifferenza: e proprio in questa lotta per il regno di Dio abbiamo bisogno di sentire Dio come nostra “difesa”.. La prima parte del vangelo presenta l’atteggiamento di Gesù di fronte alla prospettiva della sua passione: parla di un battesimo di sofferenza, in cui egli avverte di essere immerso. E tuttavia arde dal desiderio di portare a compimento la sua missione: portare sulla terra il fuoco dello Spirito, affinché il mondo venga purificato.
    Perciò gli uomini sono posti di fronte ad una scelta di campo, che può provocare anche divisioni. Come nella prima lettura: il profeta Geremia paga di persona l’annuncio della verità scottante della distruzione di Gerusalemme, e poiché i destinatari sono sordi a tale annuncio egli diventerà uomo di discordia. Anche la vita cristiana è una corsa e spesso una lotta contro lo stile del mondo: la seconda lettura ci invita perciò alla perseveranza.

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  • manifesto festa patronale 2016

  • original 17681176 Cena multietnica

  • “Siate pronti con le vesi strette ai fianchi e le lampade accese” (Lc 12,35)

    07082016La vita cristiana è sempre esistenza sotto il segno della venuta del Signore.
    L’attesa di chi ci viene incontro per salvarci è l’atteggiamento che deve caratterizzare tutta l’esistenza del cristiano: l’attesa dell’incontro con il Signore assume un carattere di decisività, che comporta sensibilità per Dio, per le persone che chiedono aiuto, e in tutte le relazioni che costruiamo.
    Il contrario sono indifferenza e inerzia, la fuga dalle proprie responsabilità.
    La vita quotidiana può incontrare molte tentazioni che addormentano lo spirito: la dissipazione, il divertimento, la centralità delle cose da fare, gli interessi… possono creare disattenzione e pigrizia spirituale.
    Gesù richiama all’essenziale della vita “spirituale”: non perdere di vista nel quotidiano l’attenzione a Dio e ai fratelli.
    Il vangelo ci pone di nuovo di fronte ai beni di questo mondo e alle nostre scelte di fondo: per chi crede Dio è sempre “colui che viene”, colui che va atteso e per il quale occorre essere sempre pronti: le parabole ci parlano di questa prontezza. Se nella vita c’è Dio al primo posto, tutto il resto diventa allora non il fine, ma un semplice mezzo. Le immagini delle vesti cinte ai fianchi e delle lampade accese richiamano l’esperienza dell’esodo.
    Così, nella prima lettura, erano invitati a comportarsi i figli di Israele: a mantenere desta la fede nelle promesse di Dio su cui si fondava la loro sicurezza. La fede è anche per la seconda lettura fondamento delle cose che si sperano, al di là di ogni altra forma di sicurezza umana.

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  • «Sono venuto a gettare fuoco sulla terra» Lc 12,49

    18082019Le letture odierne invitano al coraggio e alla perseveranza nella fede. Credere in Dio è certamente un grande dono ed è fonte di pace e di gioia. Tuttavia chi crede deve mettere in conto ostilità e persecuzioni da parte di un mondo che spesso vive in radicale opposizione al disegno di Dio. Ciò non deve spaventare, ma deve ricordare ai discepoli che la fede non è un gioco e che non sono ammessi compromessi di sorta. Sull’esempio dei profeti dell’Antico Testamento e dello stesso Gesù, i cristiani sono chiamati a fare della propria vita un sacrificio gradito a Dio, rinunciando ai piccoli e grandi egoismi che distolgono dall’adempimento fedele e obbediente della sua volontà. Per tale motivo possiamo paragonare la vita cristiana ad una lotta che richiede impegno, allenamento, concentrazione e sacrificio, sapendo però che i nostri sforzi sono sostenuti dalla grazia di Dio e dall’azione potente dello Spirito che abita in noi.

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